È da un po’ che ci penso. E da un po’ che mi sembra che parlare di nonviolenza sia sempre più urgente, in un periodo in cui alcune cose si danno per scontate (e quindi considerate inutili) e tutto ciò che necessita di un piccolo sforzo di pura elaborazione mentale, viene considerato perdita di tempo.
In un periodo in cui la crisi economica e politica sembrano annientare qualsiasi discorso che non abbia una ricaduta sulla praticità, anzi mi correggo, sulla materialità. Quante volte mi sono sentita dire: “Ma cosa ci pensi a fare! Ma queste cose non servono a niente. Tanto non cambia nulla”. Il “tanto non cambia nulla” secondo me è un’arma di distruzione di massa di pensieri, di intelligenza, di possibilità di trovare soluzioni nuove, creative e, magari, anche efficaci.
Perciò in questo spazio vorrei parlare di nonviolenza, perché penso che ciò serva, magari non a trovare un lavoro, ma a trovare una strada da seguire nella vita.
È mia intenzione quindi condividere le teorie e le pratiche della nonviolenza.
Probabilmente se chiedessi in giro qual è la prima persona che viene in mente sentendo parlare di nonviolenza, sentirei ricordare da molti il Mahatma Gandhi.
Gandhi è stato un grande leader spirituale e politico, che ha guidato la più grande rivoluzione non-violenta contro un regime di occupazione. Il suo pensiero ha influenzato intere generazioni in tutto il mondo, ma soprattutto in Occidente. In tale porzione della terra infatti, il messaggio di Gandhi ha goduto del fatto che le società europee e statunitensi si stavano preparando ad una nuova fase, quella in cui, all’indomani della Seconda guerra mondiale, si cercavano nuovi modi di convivenza e metodi inediti per gestire i conflitti tra gli stati e tra le parti sociali.
A volte mi chiedo: ma se Gandhi fosse nato cento anni prima, avrebbe avuto lo stesso impatto sul pensiero globale? E cosa sarebbe successo, come chiedeva provocatoriamente il nostro professore di Relazioni Internazionali, se invece di confrontarsi con l’Imperatore britannico, si fosse trovato ad affrontare il Furher? A queste domande non so quanto sia utile cercare di dare una risposta e d’altra parte però, non credo possano sminuire la portata dell’azione del Mahatma. Quello che secondo me hanno però di importante è che queste domande ci fanno capire che ci sono certe condizioni che possono favorire o sfavorire l’emersione di un messaggio. Questo vale sia per i messaggi positivi che per quelli negativi, e per questo, tra gli scopi di questi interventi, c’è anche quello di individuare, quando possibile, le condizioni che ci possono aiutare ad adottare un atteggiamento nonviolento.
Infine: perché scrivere nonviolenza tutto attaccato e non separando la negazione dal sostantivo “violenza”? Questa scelta, che è stata fatta per la prima volta negli anni ’50 da Aldo Capitini, padre della nonviolenza in Italia, deriva dal fatto che il neologismo racchiude in sé una connotazione positiva e propositiva. Non si tratta soltanto di eliminare la violenza, ma anche di promuovere una pratica di attiva costruzione della pace. È come se oltre a volere togliere qualcosa, ne volessimo contemporaneamente introdurre un’altra.
E quindi l’invito che faccio a me stessa e a chi vorrà seguirmi è domandarsi: cosa voglio aggiungere a questo mondo?