Risotto al pesto di broccoli

La ricetta per questo risotto è semplicissima e veloce ma secondo me dà una bella soddisfazione al palato. Molto spesso ci dimentichiamo che la maggior parte delle verdure possono essere consumate o essere utilizzate crude, come per esempio il broccolo.

Copertina risotto al pesto di rucola

INGREDIENTI
(4 persone)

– 320 g di riso carnaroli (se utilizzate il riso integrale il tempo di cottura si allunga, ma la salute ne beneficia!!!)
– cipolla, carota e sedano per il brodo vegetale (oppure brodo già pronto, ma che sia di buona qualità!)
– 1 broccolo abbastanza grosso di cui utilizzeremo le parti verdi
– una bella manciata di prezzemolo che avremmo tritato finemente
– 1 spicchio di aglio (leggermente sbollentato se non vi piace il sapore troppo forte)
– 1 cipolla bianca
– olio extravergine di oliva
– scorza di un limone grattata
– sale
– semi di canapa e di zucca (ma vanno bene anche semi di sesamo tostati)

PROCEDIMENTO

Per prima cosa prepariamo il brodo vegetale mettendo in un pentolino pieno di acqua una cipolla chiara, una costa di sedano e una carota. salare con un cucchiaino di sale e far bollire fino a che le verdure non sono morbide.
Successivamente tritiamo finemente la cipolla e facciamola rosolare con un po’ di olio extravergine e un pizzico di sale in un tegame. Quando la cipolla è ben appassita si unisce il riso e lo lasciamo insaporire qualche minuto. A questo punto aggiungiamo il brodo vegetale e facciamo cuocere come un normale risotto.
Nel frattempo prepariamo il condimento che è molto semplice: tagliamo il più finemente possibile il broccolo (se volete potete utilizzare un tritatutto se preferite una consistenza più fine). Uniamo l’aglio tritato, il prezzemolo, un po’ di olio di extravergine di oliva e infine sale e pepe. Il nostro pesto è fatto.
Quando al riso manca un minuto per essere pronto aggiungiamo il pesto e amalgamiamo bene. I broccoli non si devono cuocere ma solo scaldare. Spegniamo il fuoco e grattiamo la scorza del limone, giriamo bene e distribuiamo il farro nei piatti. Cospargiamo con i semi che abbiamo scelto, condiamo con un filo di olio a crudo ed ecco, il nostro piatto è pronto!

Sulla NONVIOLENZA

È da un po’ che ci penso. E da un po’ che mi sembra che parlare di nonviolenza sia sempre più urgente, in un periodo in cui alcune cose si danno per scontate (e quindi considerate inutili) e tutto ciò che necessita di un piccolo sforzo di pura elaborazione mentale, viene considerato perdita di tempo.

fiore

In un periodo in cui la crisi economica e politica sembrano annientare qualsiasi discorso che non abbia una ricaduta sulla praticità, anzi mi correggo, sulla materialità. Quante volte mi sono sentita dire: “Ma cosa ci pensi a fare! Ma queste cose non servono a niente. Tanto non cambia nulla”. Il “tanto non cambia nulla” secondo me è un’arma di distruzione di massa di pensieri, di intelligenza, di possibilità di trovare soluzioni nuove, creative e, magari, anche efficaci.
Perciò in questo spazio vorrei parlare di nonviolenza, perché penso che ciò serva, magari non a trovare un lavoro, ma a trovare una strada da seguire nella vita.
È mia intenzione quindi condividere le teorie e le pratiche della nonviolenza.
Probabilmente se chiedessi in giro qual è la prima persona che viene in mente sentendo parlare di nonviolenza, sentirei ricordare da molti il Mahatma Gandhi.
Gandhi è stato un grande leader spirituale e politico, che ha guidato la più grande rivoluzione non-violenta contro un regime di occupazione. Il suo pensiero ha influenzato intere generazioni in tutto il mondo, ma soprattutto in Occidente. In tale porzione della terra infatti, il messaggio di Gandhi ha goduto del fatto che le società europee e statunitensi si stavano preparando ad una nuova fase, quella in cui, all’indomani della Seconda guerra mondiale, si cercavano nuovi modi di convivenza e metodi inediti per gestire i conflitti tra gli stati e tra le parti sociali.
A volte mi chiedo: ma se Gandhi fosse nato cento anni prima, avrebbe avuto lo stesso impatto sul pensiero globale? E cosa sarebbe successo, come chiedeva provocatoriamente il nostro professore di Relazioni Internazionali, se invece di confrontarsi con l’Imperatore britannico, si fosse trovato ad affrontare il Furher? A queste domande non so quanto sia utile cercare di dare una risposta e d’altra parte però, non credo possano sminuire la portata dell’azione del Mahatma. Quello che secondo me hanno però di importante è che queste domande ci fanno capire che ci sono certe condizioni che possono favorire o sfavorire l’emersione di un messaggio. Questo vale sia per i messaggi positivi che per quelli negativi, e per questo, tra gli scopi di questi interventi, c’è anche quello di individuare, quando possibile, le condizioni che ci possono aiutare ad adottare un atteggiamento nonviolento.
Infine: perché scrivere nonviolenza tutto attaccato e non separando la negazione dal sostantivo “violenza”? Questa scelta, che è stata fatta per la prima volta negli anni ’50 da Aldo Capitini, padre della nonviolenza in Italia, deriva dal fatto che il neologismo racchiude in sé una connotazione positiva e propositiva. Non si tratta soltanto di eliminare la violenza, ma anche di promuovere una pratica di attiva costruzione della pace. È come se oltre a volere togliere qualcosa, ne volessimo contemporaneamente introdurre un’altra.
E quindi l’invito che faccio a me stessa e a chi vorrà seguirmi è domandarsi: cosa voglio aggiungere a questo mondo?